LE PROSPETTIVE DELL’ITALIA SECONDO UN ECONOMISTA D’AZIENDA
Il mese di maggio si è consumato ed è stato caratterizzato, per la prima metà, da condizioni atmosferiche estremamente variabili e, poi, nell’ultima decade da scosse di terremoto che hanno distrutto una delle regioni più operose del Paese. Purtroppo, è possibile verificare una sorta di parallelismo tra le ricordate situazioni di origine atmosferiche e sismiche e quanto sciorina, in termini di informazione e di iniziative, il Governo del Paese. Al riguardo, la condizione recessiva non viene negata, ma su colpe e rimedi ce ne è per tutti i gusti.
Prescindiamo dall’entità statistica espressa dal PIL, constatato in calo e previsto in peggioramento nel 2013, per analizzare dati meno paludati ma forse più significativi al fine di cogliere la sensazione diffusa nella popolazione.
Cominciamo dal riferimento più drammatico, quello che la mia generazione aveva studiato nella «crisi del ‘29»: la disperazione che induce a togliersi la vita. Si tratta di una decisione estrema, ormai, però, non più episodica, giacché i numeri di chi l’ha adottata contano già tre cifre.
Sono micro imprenditori e lavoratori i quali non riescono a vedere un futuro, poiché quanto aveva alimentato la loro programmazione del domani è venuto meno: il lavoro.
Questo concerne i clienti per la fabbrichetta, piuttosto che per la bottega o il negozio, quando si tratta di artigiani e piccoli imprenditori, il posto di lavoro, quando si parla di dipendenti.
La domanda è: si tratta di un aspetto inevitabile in tempo di crisi economica e, quindi, se questa perdura è inarrestabile, oppure è possibile prendere qualche iniziativa per arginare il terribile fenomeno?
Le Autorità italiane appaiono silenti, salvo che per rigettare eventuali responsabilità, addossandole, eventualmente, ad altri.
Mi sento di definire tale atteggiamento cinico e, quello che è peggio, espressione di un vuoto assoluto di idee realizzative.
L’aggettivo è necessario poiché le dichiarazioni si sprecano ma la positività realizzativa latita, almeno nel senso dell’impegno ad uscire dal baratro.
Cercherò di esplicitare meglio il mio pensiero riferendomi ad un aspetto dimostrativo della contraddizione tra dire e fare nel senso logico del dire.
Il Governo, che ricordo è sostenuto dalla quasi totalità del Parlamento, dichiara che è tempo di dedicarsi al rilancio, mai avulso, però, dal rigore. Orbene, la realtà economica del Paese ci pone di fronte a quanto sta a monte delle “disfatte individuali” sopra ricordate, e cioè un sistema bancario che non sostiene le attività di impresa, il credito verso gli enti pubblici, compreso lo Stato, che non viene onorato alla scadenza, oltre, non c’è dubbio, una certa grettezza tradizionale della classe imprenditoriale nazionale, salvo, ovviamente, le eccezioni che confermano la regola.
In tale contesto, il Parlamento ha votato il 16 maggio 2012 – all’interno di un pacchetto sul quale il Governo, ancorché blindato da una maggioranza nella quale non sono compresi solo due partiti minori, ha posto la fiducia – la reintroduzione delle commissioni nei rapporti di conto corrente affidati.
Si tratta di una decisione volta a far lievitare il costo del credito, almeno per chi vi può accedere.
Sembra lecito, quindi, riproporre il dubbio esposto, vale a dire perché si blatera di provvedimenti atti a sostenere gli investimenti e, poi, nei fatti si opera nell’esatto contrario.
L’alibi europeo è presente, sempre e con forza, specie da quando la Grecia è indotta a tornare alle urne, poiché i risultati della tornata di questa primavera non hanno reso possibile la formazione di un Governo.
Gli osservatori definiscono il voto dei Greci previsto a giugno 2012, un “referendum” sulla permanenza o meno della Repubblica Ellenica nell’Euro.
Il tema è stimolante e tutti ne propongono uno svolgimento, i cui finali, però, mi pare tendano ad incontrarsi: cercare una soluzione perché l’uscita non avvenga.
In tale contesto, però, occorre uno scatto della politica economica nazionale, la quale, tenendo anche conto del possibile onere per trattenere la Grecia nell’Euro o, in alternativa, per sopportare la ricaduta della sua uscita dalla moneta unica, esprima concrete iniziative di rilancio.
Apparentemente, il nostro Presidente del Consiglio sembra aver virato dalla totale sudditanza all’impostazione della Cancelliera tedesca, forse valutando che il nuovo «inquilino dell’Eliseo» intende negoziare con la Germania le linee per l’Europa e non semplicemente condividerle come ha fatto il suo predecessore. Di fatto, però, esprimersi semplicemente in termini di rilancio non basta se alle espressioni, più o meno paludate, non si accompagna un programma. Questo manca e non può essere accettato il principio che operazioni di rilancio debbano essere definite nei consessi europei: ad essi, infatti, vanno presentate proposte che indichino aree di investimento e fonti per finanziare gli stessi nell’ambito nazionale.
In concreto, il piano dovrebbe fondarsi su investimenti capaci di soddisfare bisogni presenti e sospingere un indotto produttivo, al fine di innescare il meccanismo virtuoso della ripresa economica, la quale, incidendo su occupazione e consumi, genera flussi moltiplicativi di cui beneficeranno anche gli enti pubblici che vedranno elevare la base imponibile e, di conseguenza, il prelievo.
Fuori dal generico, anche per non cadere nell’atteggiamento criticato, la mia opinione è che si debba intervenire sulle infrastrutture, dando priorità a quelle necessarie per recuperare un notevole “gap” nei servizi, e sul ritorno all’agricoltura. La contingenza del sisma che ha colpito l’area emiliana, e non sembra voler lasciare la presa, testimonia la «disattenzione» ad un problema che colpisce vite umane, al quale altri Paesi hanno dato una soluzione, anche se non sempre vincente in assoluto. Peraltro, tale calamità richiama anche l’esigenza di salvaguardare il più importante “asset” del nostro Paese: il patrimonio storico culturale, costituito da monumenti, reperti e quant’altro. Parallelamente, come già detto, occorre intervenire sulle infrastrutture, tra le quali la precedenza va data alle comunicazioni, e cioè alla rete ferroviaria, all’attività di cabotaggio ed al trasporto fluviale, senza trascurare le telecomunicazioni su banda larga. Inoltre, includerei nel piano forme di recupero e di rilancio dell’agricoltura, resa negletta anche dalla perfida trasformazione in agriturismo. I costi sono certamente notevoli, ma i modi per finanziarli esistono anche coinvolgendo in maniera adeguata privati investitori. Progetti concreti, con risultati dimostrati anche in termini di qualità della vita debbono trovare accoglimento in Europa e, conseguentemente, aspirare legittimamente a fondi europei.
Sarà anche necessario un allargamento dell’indebitamento pubblico, ma, neutralizzato, per la sua finalità, dal tema del pareggio di bilancio, tale indirizzo andrebbe autenticamente ad alimentare una ripresa, che le manovre attuali, del tutto recessive, hanno negato.
Occorre, lo ripeto, un piano vero espresso da cifre che misurino le uscite e, di converso, le entrate. Per la parte di queste ultime acquisite a credito, il piano dovrà indicare le modalità di rimborso e le fonti dello stesso.
La responsabilità del programma deve essere centrale, e cioè del Governo, che deve convincere con le motivazioni tecniche poste a supporto dello stesso, enti locali e parti sociali, facendo finalmente comprendere che non può mai esistere un piano che fa contenti tutti subito, ma che è realizzabile tale generalizzabilità nel tempo e tale circostanza deve essere inequivocabilmente dimostrata nel piano.
In vero, i provvedimenti governativi di cui si legge non sembrano andare nel senso test’è auspicato, per esempio si prevede un programma di sostegno per l’edilizia abitativa che, al di fuori dell’area terremotate, non appare una priorità. Piuttosto, può trasformarsi in un’ulteriore cementificazione forse foriera di altri danni.
Claudio Bianchi