Dopo molti mesi riprendo in mano la penna per esprimere qualche riflessione indotta dalla situazione economica e finanziaria nazionale e non solo.
Il 2016 si è aperto con il solito balletto di cifre su PIL, occupazione, ripresa industriale e quant’altro.
Prima di soffermarmi su tali aspetti, vorrei in quale modo compiacermi per l’impegno del Governo a volere fuori del patto di stabilità gli investimenti.
L’auto compiacimento deriva dall’implicito riconoscimento di quanto ho sempre sostenuto, e cioè che il deficit spending è inevitabile per il rilancio dell’economia.
La differenza abissale tra il mio assunto e quanto richiesto all’Europa dal Governo nazionale è che io ho subordinato l’azione ad un organico quadro programmatico, finalizzato ai vari settori nei quali investire per uscire dalla recessione, mentre il Governo italiano chiede un’eccezione per i costi relativi all’asilo agli immigrati, che è cosa buona e giusta ma non investe la complessità del problema socio-economico nel quale il Paese si dibatte da anni.
Vengo al “balletto” delle cifre citato all’inizio per segnalare che le stesse esprimono un continuo “stop and go”. Infatti, si va dall’euforia per previsioni brillanti, alla delusione per la loro immediata sconfessione, spesso da parte di Organismi europei.
Il dato sull’occupazione è quello che determina la più forte impressione, giacché le statistiche vengono piegate all’obiettivo voluto.
Il Governo intende dimostrare l’efficacia del “Jobs act”, così prende a riferimento i contratti a tempo indeterminato e ne sottolinea l’incremento. Dato vero, peccato che non venga chiarito che si tratta sovente di trasformazione di contratti precari e, quindi, relativi a gente già occupata. Gli aiuti alle imprese che formalizzano assunzioni a tempo indeterminato, concretizzati in sgravi contributivi e fiscali, sono un incentivo alle trasformazioni contrattuali in questione, le quali rimangono, comunque, neutre rispetto all’autentico tema dell’incremento occupazionale.
I dati significativi, al riguardo, sono le piccole e medie imprese che chiudono, al pari delle aziende artigiane.
Si può pensare, in proposito, che si tratta del “nuovo che avanza”, nel senso che le maggiori dimensioni nella distribuzione commerciale scalzano i negozi tradizionali. È vero, ma la ricaduta occupazionale esiste ed è negativa.
Occorre, quindi, programmare la riconversione di chi ha perso il lavoro e ciò va programmato, avendo cura di valutare il costo dell’investimento e le migliori condizioni per l’approvvigionamento delle fonti di finanziamento.
Tale aspetto lo avevo già incluso nello schema di programmazione proposto ad aprile 2014 (n.13) e non ci torno, mentre desidero soffermarmi sul fenomeno artigianato.
Il settore è stato sempre additato come peculiare dell’economia nazionale e sicuro viatico del “made in Italy”. Allo stato, però, appare tragicamente premoriente, perché privo di ricambio generazionale.
Una mia recente esperienza, volta a cercare di recuperare le botteghe artigiane della tradizione romana, mi ha portato a constatare, da un lato, la scarsa volontà degli artigiani ad impegnarsi per preparare i giovani e, dall’altro, la difficoltà di trovare giovani disposti ad impegnarsi per imparare il mestiere. Eppure entrambe le categorie avrebbero avuto vantaggi, giacché il progetto era finanziato da una Fondazione sensibile al problema.
La riferita constatazione sui giovani, mi porta di nuovo al tema delle statistiche sull’occupazione, per sottolineare che c’è un certo rifiuto dei confronti dei lavori manuali, anche se molti di questi esprimono attività non lontane da realizzazioni artistiche.
Ne consegue, che occorrerebbe enucleare dai non occupati quelli che non vogliono occuparsi, quali ideali protagonisti del recente film di grande successo “Quo Vado”, ideato ed interpretato da Checco Zalone.
Il tema porta inevitabilmente alla «buona scuola» che in verità non è tale e non coglie neanche le esigenze occupazionali. Spiego meglio il mio pensiero: la scuola italiana ha perduto il suo punto di forza, quello proprio della «scuola che forma», senza guadagnare sul piano dell’informazione specifica, tipica della professionalizzante scuola anglosassone.
Mi piace sempre ricordare in proposito la risposta della prof.ssa Levi Montalcini ad un intervistatore, che le chiedeva se si era trovata in difficoltà nel lavorare con colleghi provenienti da differenti università. Ella rispose di essere avvantaggiata rispetto ai colleghi, perché aveva ricevuto una formazione culturale migliore, proprio quella che, temo, si sia ora perduta.
Torno più direttamente alla cronaca economico-finanziaria per prendere atto che la stessa ci segnala l’esigenza di tagli alla spesa, testimoniando, così, gravi difficoltà finanziarie in uno scenario di debito pubblico in crescita.
La prima riflessione che mi viene da fare riguarda la già osservata incongruenza delle informazioni, che ci portano sulle montagne russe, con grida di euforia alternate a richiami di attenzione per situazioni di pericolo.
La seconda è nel merito, perché la contingenza dimostra la conseguenza nefasta di governare senza una programmazione adeguata ad obiettivi definiti.
Così ci si accorge che aumenta il debito non a fronte di investimenti strutturali atti alla ripresa economica, ma per fronteggiare il corrente.
Ecco la necessità di ridurre tale spesa tagliando dove questa appare più elevata, come per la sanità, che, invece, richiede un esborso crescente se non altro per il prolungamento della vita media.
Il caos aumenta quando ci si trova di fronte a disfunzioni del sistema bancario, cosicché si ricorre a decreti per fronteggiare la crisi di talune aziende di credito. La situazione, peraltro, favorisce l’accanimento dei media sulle incapacità gestionali della classe dirigente bancaria, nonché su chi è deputato al controllo della stessa.
Si mobilita l’opinione pubblica a favore di depositanti truffati per essere stati indotti a sottoscrivere obbligazioni espressioni di prestiti subordinati, a rischio perdita subito dopo i titoli di partecipazione diretta al capitale di rischio.
Intanto le disposizioni europee in materia creditizia stabiliscono la solidarietà dei depositanti con conti oltre i cento mila euro, in caso di default dell’azienda di credito depositaria (cosiddetto bail in).
Gli accertamenti in corso sulle quattro banche oggetto del provvedimento ricordato, stanno evidenziando che coloro che hanno diritto al rimborso non sono più di mille e questa è un’altra prova della furbizia italica, che sta progressivamente distruggendo il Paese.
Il dilemma è come fermare la disgregazione o imbarbarimento che è sotto gli occhi di tutti coloro i quali vogliono vederlo.
Non intendo ripetere cose che ho già detto tante volte, limitandomi a chiedere, prima di tutti a me stesso, se la classe politica e dirigente che ci governa e dirige è in grado di opporsi al degrado, che nega essere a lei imputabile qualificandosi rinnovatrice, oppure no.
Io credo non lo sia, malgrado le velleitarie dichiarazioni, e, quindi, vada cambiata. Ma come? Il varco, secondo me, è uno solo: il referendum costituzionale; se su tale confronto la predetta classe politica, tutta si badi bene, sarà sconfitta, dovrà, come ha detto il leader capo del Governo, prenderne atto e passare la mano.
A questo punto si aprirà un nuovo capitolo: come indicare una nuova classe politica?
La risposta adeguata è un programma serio a medio/lungo termine che risponda, su basi solide e controllabili tempo per tempo, alle esigenze autentiche del Paese e sottoporsi con questo al giudizio elettorale.
Ci vuole volontà, impegno e… soldi, ma se, credendoci, ognuno si adopera nel suo piccolo su ciascuno dei predetti aspetti è possibile che l’operazione riesca.
Claudio Bianchi