20.03.2020
Torno, dopo le due riflessioni sulla guerra al Coronavirus, a quanto mi è più congeniale anche se inquadrerò il problema nel tema più generale ed inevitabile della crisi indotta dal predetto virus.
L’argomento che intendo affrontare è quello della fallibilità delle banche sul quale mi sono già intrattenuto. La collettività ha sostenuto in più occasioni, l’ultima in ordine di tempo è la crisi della Popolare di Bari, l’onere pesante del salvataggio di aziende di credito, che gli stessi ispettori, all’epoca, della Banca d’Italia avevano dichiarato “decotte” soprattutto a causa di una gestione tutt’altro che commendevole.
L’attuale crisi finanziaria ed economica indotta dal Coronavirus, ci conferma che le nostre aziende di credito non stanno svolgendo alcun ruolo sociale, come la giustificazione di essere «imprese protette» imporrebbe. Non sostengono la liquidità che manca alle imprese manifatturiere e mercantili, specie medie e piccole, mentre la nostra Borsa, infarcita di Banche, tracolla perché queste non reggono neanche la più bieca speculazione.
Ribadisco il mio convincimento circa l’esigenza, evidenziata anche nella normativa italiana fin dal 1926, di salvaguardare i diritti dei risparmiatori, mentre non condivido la protezione dell’azienda banca, quale struttura imprenditoriale da salvare ad ogni costo.
Siamo di fronte ad una manovra economico-finanziaria valutata dal Governo pari a ventisei milioni di euro, che l’opposizione giudica insufficiente, di fronte alla quale occorre trovare fonti di finanziamento che ci fanno ricorrere all’attenzione europea, mentre abbiamo speso e spendiamo denari per inutili salvataggi di banche decotte. Del resto, quelle favorite per il salvataggio hanno acquistato gratuitamente gli assets positivi di queste ultima e si apprestano a rilasciare migliaia di occupati sul mercato.
Mi rendo conto delle possibili critiche alla mia tesi, ma non temo lo sconquasso del sistema finanziario se una banca fallisce: personalmente non ci credo, soprattutto perché lo sconquasso non può mai essere superiore a quello che crea la crisi di un’impresa di grandi dimensioni, che, come l’Ilva, si identifica addirittura con la struttura economico-sociale di un’intera città.
Posso avere torto, se è così attendo indicazioni per approfondire le mie riflessioni.
Grazie
Claudio Bianchi