Riprendo queste mie riflessioni dopo un intervallo di circa 3 mesi, sollecitato da un fedele e convinto lettore. La ragione prima del mio “blocco” è stata la dipartita di una persona che mi ha sempre seguito, consigliato e spronato a proseguire, persona o meglio personaggio al quale ero legato da affetto oltre che da una profondissima stima.
La mancanza del suo pungolo mi ha tolto la voglia di proseguire, finché il giovane amico che ho citato poc’anzi non mi ha voluto incontrare e mi ha messo di fronte ad un autentico bivio: il ruolo attivo del “non partito” nel referendum si può esaurire in quell’occasione, oppure dispiegare la sua capacità per il cambiamento del Paese.
Tale considerazione mi ha indotto a riflettere ed uno spunto mi è venuto proprio dalle parole del rinnovato segretario del PD.
Egli, infatti, ha accusato i fautori del “no” al referendum di aver gettato di nuovo il Paese “nella palude”, ma essendo tali strali indirizzati alle formazioni politiche schierate per il “no”, e cioè ai suoi avversari ufficiali, lascia intendere di non aver capito che il risultato del voto referendario è il portato del ritorno al voto di quello che seguito a chiamare il “non partito di maggioranza”. Se quest’ultimo non abbandonerà il suo spirito costruttivo per tornare ad essere il partito delle astensioni nelle diverse forme, sarà l’attore della rifondazione morale, sociale ed economica del Paese.
Ma quel “non partito”, per diventare l’attore ipotizzato, ha bisogno di un riferimento che favorisca l’aggregazione dei suoi membri, giacché non si riconosce per definizione nelle compagini attuali che ha categoricamente rifiutato, prima, con le varie forme di non voto e, poi, con il ritorno massiccio al voto quando questo è sembrato il mezzo per allontanare definitivamente quelle compagini da un ruolo attivo nel panorama politico del Paese.
Trovare quel riferimento è, in concreto, il problema, poiché è sicuramente vero, come ho esposto in precedenti occasioni, che nel panorama di 60 milioni di italiani si debbono trovare per forza 300 persone capaci, disponibili ed oneste su cui contare per creare un nucleo in grado di produrre l’offerta che attende il «non partito».
Di fatto, però, come si può costituire quel nucleo, non certo per autodeterminazione poiché, in ogni caso, mancherebbero i riferimenti. Abbiamo riconsiderato, il mio interlocutore citato ed io, l’idea di costituire e proporre un’associazione, ma il rischio è che la stessa nasca morta per mancanza di aderenti in numero adeguato.
Del resto questo l’ho già sperimentato attraverso la mancanza di reazioni da parte dei miei lettori, anche i più assidui, quando ho avanzato la proposta dell’Associazione.
Approfondendo tale effetto, emerge che, come nel caso del referendum, occorre dare agli esponenti del “non partito” programmi concreti che esprimano un’inversione di tendenza rispetto a quanto proposto dagli attuali schieramenti politici.
L’obiettivo, ovviamente, è quello del benessere del Paese, attraverso il recupero dei valori etici e la spinta alla risalita economica in un solco di diffusa socialità.
Se mi fermassi a tali enunciazioni di principio, meriterei l’appellativo di intellettuale fumoso che, peraltro, tradisce ciò che afferma, richiamando l’esigenza di piani concreti.
Vado, perciò, avanti riprendendo da una notizia di stampa l’aspetto che è più nelle mie corde di studioso e di professionista: la programmazione.
Campeggiava sulla prima pagina del “Sole 24 Ore” di qualche giorno fa la notizia che, malgrado il miglioramento di vari parametri economici, il debito italico seguita a crescere! Si tratta, evidentemente, dell’effetto della spesa corrente, giacché le spese infrastrutturali sono praticamente assenti.
L’effetto di quella crescita è la richiesta dell’Europa di una manovra di bilancio, il cui onere, inevitabilmente, ricadrà sul contribuente italiano, impoverendolo ulteriormente.
Come correggere tale tendenza, certamente evitando gli sprechi, ma, a mio sommesso parere, rivedendo l’intero sistema della spesa pubblica.
In questo contesto va parallelamente messo in campo un programma che spinga la spesa per investimenti, creando imprese e conseguentemente lavoro. A proposito di quest’ultimo aspetto, va sottolineato che è al centro delle indicazioni di intenti di tutti i protagonisti politici, o presunti tali, del firmamento italiano.
Tra questi quelli “al comando” indirettamente o nel recente passato direttamente si acclamano per provvedimenti, come il Jobs Act, che assumono abbia riavviato lo sviluppo occupazionale.
Le “opposizioni” contestano tali risultati negando il successo della norma citata.
La verità è che il problema dell’occupazione esiste e l’andamento negativo della stessa sembra esprimere un “trend”.
Allora bisogna impietosamente andare alla radice del problema, se si vuole trovare una soluzione ad una patologia che appare pericolosamente tendere alla radicalizzazione.
Questo vuol dire mettere in primo luogo ordine alle statistiche, poiché non mi sembra corretto inserire tra i non occupati chi è in età di scuola dell’obbligo e, forse, anche chi è impegnato scolasticamente oltre l’obbligo, e cioè nei cicli scolastici superiori e nelle università, con curricula in corso.
Anche se poniamo in essere tali correttivi permane grave la situazione per chi è oltre i 27 anni ed è in cerca di occupazione, nonché per i troppi “over cinquanta” espulsi dal mondo del lavoro ed impossibilitati a rioccuparsi. Del resto è notizia di attualità che UBI, dopo aver acquisito per 1 euro quattro banche «ripulite» da sofferenze e quant’altro (le cosiddette quattro “Good Banks”), ha annunciato per bocca del suo Amministratore delegato, che entro il 2020 si dovrà liberare di quattromila dipendenti in esubero, di cui il 35% circa rivenienti dalle citate quattro banche! L’assicurazione che non si tratterà di licenziamenti ma di forme agevolate per pervenire al pensionamento non muta la sostanza dello scenario, che rimane quello di un’uscita forzata dal mondo del lavoro di quattromila dipendenti che difficilmente riusciranno a trovare una nuova occupazione.
Peraltro, il jobs act e le diverse forme di agevolazioni contributive e fiscali hanno spinto le imprese a trasformare contratti di lavoro temporanei di vario tipo in assunzioni a tempo indeterminato, ma questo ha solo modificato lo “status” del lavoratore, il quale era già nel novero degli occupati. In altri termini, le statistiche indicano l’incremento degli assunti, ma, di fatto, si tratta di una modifica contrattuale dei rapporti di lavoro già in essere.
Questi esempi sono a conforto della mia precedente affermazione in ordine all’esigenza di statistiche idonee a dare un’informazione che favorisca un diretto ed inequivocabile accesso alla veridica interpretazione dei dati proposti. Le indicazioni equivoche non sono utili a nessuno ed inducono sempre di più i destinatari al disgusto per l’informazione dell’“entourage” di comando e, quindi, per la partecipazione alla vita pubblica.
Se tale considerazione è corretta, occorre avere il coraggio di dire sempre la verità, anche se la stessa può essere sgradevole e far perdere consensi. Questi ultimi, però, si recuperano perché le persone sanno valutare i risultati e comprendere che l’ipocrisia è solo perniciosa.
Voglio proprio misurarmi su tale aspetto, riferendomi al capitolo imposte.
Tutti i “leader”, almeno negli ultimi lustri, hanno fatto a gare nel dire che avrebbero ridotto le imposte, però ciò non è avvenuto, in quanto anche di fronte alla contrazione di un’aliquota c’è sempre stato un intervento compensativo su altre tasse o imposte ed il gravame sul contribuente non è diminuito, bensì si è accresciuto. Ebbene, se questo comportamento un po’ subdolo è stato una prassi, è anche conseguenza dei “diktat” europei ed, in definitiva, dell’obbligo di pareggio del bilancio.
La mia opinione, già espressa in tante precedenti occasioni, e che, se si vuole imprimere la necessaria accelerazione alla ripresa, ripeto, morale, sociale ed economica del Paese, occorre disporre degli adeguati mezzi finanziari, i quali, con riferimento allo Stato ed agli enti pubblici territoriali, possono pervenire dal gettito fiscale e dall’indebitamento. In relazione a quest’ultimo, ribadisco che non si deve continuare a mendicare un allentamento dei vincoli europei per un motivo o per l’altro, bensì esporre, in un programma finalizzato alla riemersione del Paese, obiettivi, mezzi per conseguirli e prevedibili risultati.
Così, immagino, si potranno convincere i tecnocrati dell’Entourage di sorveglianza dell’Unione Europea.
Quanto all’altra fonte di finanziamento, e cioè imposte e tasse, ritengo corretto dire che non possono essere ridotte di fronte alle esigenze contingenti di uno sforzo comune per risollevare il Paese. Lo so, ci sono aberrazioni c’è l’evasione, ma si tratta di aspetti che dovranno essere affrontati in un contesto di revisione dell’intrigata materia tributaria, quando quei trecento esponenti del “non partito” riusciranno ad avere voce in capitolo, attualmente, però, è necessario intervenire sui gangli portanti della nostra economia come la salvaguardia del territorio, del patrimonio artistico e culturale proprio dei luoghi simboli dell’Italia.
Ciò va fatto subito, perché se un evento colpisse quel patrimonio che rappresenta tutta la nostra fortuna, saremmo finiti. D’altro canto, se il progetto fosse portato avanti con determinazione, si creerebbero nuove imprese, nuove occasioni occupazionali e si rialimenterebbe il magico circuito della ripresa economico-sociale.
Così i sacrifici di oggi sarebbero compensati dai ritorni di domani e ciò darebbe una rinnovata fiducia ai troppi giovani che studiano senza convinzione perché pensano che non troveranno lavoro ed a coloro che aspirano al ritorno all’occupazione, essendo capaci di profondere ancora nell’impegno lavorativo competenza e voglia di fare.
È evidente che oltre alla programmazione di infrastrutture, secondo me irrinunciabile ed indifferibile al pari del recupero dell’agricoltura, ci dovrà essere l’impegno parallelo su temi afferenti la struttura civile del Paese, quale la revisione del sistema fiscale, di cui ho detto, quella del sistema giustizia, del sistema scolastico/educativo di ogni ordine e grado, del funzionamento degli enti pubblici territoriali e del sistema sanitario, che cito per ultimo anche se è probabilmente una priorità.
Concludo tali enunciazioni, poiché non vorrei che chi mi legge e, soprattutto, chi pensasse di partecipare a quel soggetto nel quale vedere di aggregare i membri del “non partito” mi accusasse, schifato, di fare chiacchiere.
In questa sede e nel dubbio che il non partito preferisca rimanere tale piuttosto che esprimersi in un ruolo attivo, posso solo rinviare agli esempi quantitativi già fatto nelle mie “esternazioni” nn. 11 e 13, rimandando ad un momento nel quale l’aggregazione cominci a manifestarsi un programma con numeri più coerenti con la realtà che si va manifestando.
La strada che prospetto è lunga, non meno di due o tre legislature, ed il percorso molto impervio, poiché non ci supporterà, come nel dopoguerra, un “piano Marshall” e gli italiani dovranno sostenere oneri fiscali e dovranno sottoscrivere il debito pubblico facendo ulteriori sacrifici, ma, conti alla mano, nel medio termine saranno ripagati ed il “bel Paese” tornerà ad essere tale nella realtà e, soprattutto, per le giovani generazioni.
Claudio Bianchi