Auspicavo che il periodo feriale inducesse un po’ tutti alla riflessione, cosicché la ripresa delle attività fosse caratterizzata da qualche barlume di positività.
Invece, non si è verificato il primo auspicio e le conseguenze alla ripresa sono risultate anche peggiori di quanto si potesse ipotizzare nelle più pessimistiche previsioni.
Cercherò qui di seguito di motivare tale mia affermazione, partendo dall’articolo del Financial Time dell’11 agosto. In sintesi, l’autorevole foglio sosteneva che l’eventuale vittoria del “NO” al referendum costituzionale avrebbe danneggiato in modo irreparabile l’economia italiana con una ripercussione su quella dell’Eurozona molto più grave del brexit inglese.
Chi ha avuto fin qui la pazienza di leggermi, conosce la mia opinione in proposito e, quindi, può immaginare la mia irritazione per il contenuto del predetto articolo.
La mia prima reazione emotiva è stata quella di rincorrere reminiscenze storiche per ricercare una similitudine con l’infausto tentativo di blandire Hitler e Mussolini, considerandoli possibile baluardo rispetto al pericolo comunista. Ma ora quel pericolo non c’è più, motivo per cui l’«assist» al Presidente del Consiglio va ricercato altrove. Ma, mentre mi ponevo tale problema passando in rassegna varie ipotesi, ho letto sulla prima pagina de Il Messaggero che l’ambasciatore degli USA a Roma ha tuonato contro l’ipotesi della vittoria del NO al referendum, ipotizzando la fuga degli investitori esteri dall’Italia ed il più profondo degrado dell’economia del nostro Paese.
Nello stesso giornale si dava debito risalto all’analoga posizione che sarebbe stata rappresentata al nostro Premier dal Presidente Obama.
Il supporto tecnico a tale tesi verrebbe, sempre secondo il predetto foglio, fornita dal responsabile della Società Fitch che, nell’ipotesi di vittoria del NO, vedrebbe il consistente abbassamento del rating all’Italia.
Confesso che tali notizie hanno scatenato in me varie sensazioni, ma la più profonda è stata di dolore per come siamo giunti ad essere considerati uno zerbino, con il quale tutti ritengono possibile pulirsi i piedi.
Sarò un romantico, ma io non ci sto a questa deriva e voglio provare a ricercarne le cause per contestare, argomentando, chi villipendia un Paese o meglio la popolazione che lo costituisce.
Le cause sono da ricercare nelle ragioni autentiche che hanno indotto alcuni ad immaginare la cosiddetta riforma costituzionale. Sulla stessa ritengo di essermi già intrattenuto in «precedenti puntate», tuttavia voglio ora chiosare con maggiore puntualità taluni aspetti.
Dietro il «marketing» che ha visto proporre la riforma in questione come una riduzione del costo della politica, argomento di grande presa sul pubblico ammannito da testi incentrati su tali costi resi, spesso a ragione, quali sprechi, c’è dell’altro. Infatti, l’avvio della riforma con l’abolizione delle Province, non ha confermato il presupposto di tale scelta, giacché non si sono registrate contrazioni di costi, né incrementi di efficienza e produttività. Allora la volontà riformatrice va cercata altrove e, paradossalmente, proprio in ciò che sostengono i due “sponsor” statunitensi citati, ovvero nel dare all’Esecutivo un potere oggettivo sul Parlamento, ridotto alla sola Camera dei deputati, garantendo, così, allo stesso, stabile autonomia di governo.
Obiettivo, come ho ricordato nella mia riflessione n. 21, favorito dalla combinazione con l’Italicum, e cioè con la nuova legge elettorale.
Provo ora ad argomentare in ordine all’affermazione dell’Ambasciatore USA che gli investitori scapperebbero se non si realizzasse la perniciosa, dico io, riforma costituzionale. Ma, mi domando, dove sono questi investitori esteri che, credendo nelle potenzialità italiane, portano capitali per fondare nuove imprese o per partecipare all’espansione delle preesistenti. Fino ad ora, l’ho detto e lo ripeto, ho visto solo compratori del meglio dell’imprenditoria italica, che ha così cambiato bandiera senza alcun effetto positivo sulla ripresa economica e, di conseguenza, sulla componente occupazionale.
Ne consegue che l’argomento principe dell’Ambasciatore non sta in piedi, anche perché sotto il profilo del tessuto economico-sociale il NO al referendum non avrebbe alcun obiettivo germe di negatività per chi volesse, veramente, investire in Italia, semmai sarebbe vero il contrario e proverò ad esprimere, al riguardo, la mia idea.
Il Presidente del Consiglio si è definito un «piazzista» impegnato a cercare capitali esteri; l’autodefinizione è giusta, poiché, di fatto, ha favorito acquirenti del made in Italy, mentre non si è visto un insediamento nel senso aziendalistico del termine.
Volto pagina, per constatare che è triste, ma vero, che non si pensi in prospettiva ai danni potenziali dei sismi.
Voglio dire che se questo nostro Paese attrae per quanto la natura gli ha dato e per quanto nel corso dei millenni alcuni suoi «nativi» hanno saputo realizzare, ebbene ritengo che si debba fare ogni sforzo scientifico ed economico per mettere in sicurezza opere che tutto il mondo ci invidia e che costituiscono il nostro unico, autentico capitale economico.
Ciò postula che non possiamo cincischiare con il pareggio di bilancio e mendicare qualche spiraglio di flessibilità in più rispetto a tale capestro, ma fare un piano serio di interventi da realizzare nei prossimi 10/15 anni per mettere in sicurezza quel patrimonio, operando non solo con riferimento al rischio di terremoti, ma anche ponendo rimedio ai danni che la nostra incuria, dovuta alla maledetta furbizia italica che poi alimenta la criminalità, ha fatto al territorio.
La gente vuole andare in pensione prima, è vero ma forse perché non crede più che quello che fa è utile e, soprattutto, che quanto paga per imposte e contributi non le è reso in termini di servizi dallo Stato e dagli Enti locali destinatari di quei flussi.
Sono convinto, però, che sia i giovani che i meno giovani e probabilmente anche gli anziani sarebbero disposti a dare il massimo della loro capacità se potessero credere in un programma gestito da persone capaci ed oneste.
Al riguardo, ritengo che un siffatto programma non può essere né immaginato né, tantomeno, svolto da chi ci governa attualmente a livello centrale e periferico e, quindi, torno a dire che ci vuole una catarsi, la cui occasione, con buona pace dell’Ambasciatore degli Stati Uniti, passa per il NO al referendum, immaginando che lo stesso apra a nuove elezioni dalle quali emerga quel nucleo, che io ho sempre immaginato che esista nel cosiddetto “non partito di maggioranza” da me sempre evocato.
L’intervento statunitense, di cui ho riferito, mi ha indotto, peraltro, a riflettere sulla circostanza che i governanti di quella Potenza non vengano mai criticati, neanche quando hanno sulla coscienza effetti deteriori causati dalle loro decisioni.
Penso, al riguardo, al dramma dei migranti che fuggono dalle guerre, cercando luoghi dove ricominciare a vivere e, soprattutto, a quelli tra loro che muoiono nei viaggi della speranza. Ma quei conflitti chi li ha determinati? L’iniziativa del Presidente Bush senior nei confronti di Saddam Hussein, colpevole di avere armi di distruzione di massa che non sono state mai trovate, ha determinato il dramma afgano, la cui propagazione ha alimentato tutti o quasi gli altri conflitti che ancora determinano migliaia di morti nelle regioni mediorientali.
Gli inglesi hanno «bruciato» il loro primo ministro dell’epoca per aver coinvolto il Paese nella guerra contro Sadam senza che fosse adeguatamente appurata la motivazione per l’intervento armato. Nessuno, però, ha alzato il dito contro chi ha fortemente voluto quel primo conflitto ed è responsabile di situazioni invivibili in tutta la regione.
Gli Europei meridionali rimproverano a quelli a nord di non collaborare all’accoglienza, ma, forse, occorrerebbe dire agli Stati Uniti di intervenire per la soluzione di tale problema e, soprattutto, di ipotizzare interventi finanziari per riattivare l’economia di quei Paesi e consentire così alle persone di rimanere o ritornare nella loro Patria.
Probabilmente sbaglio, essendo un pessimo analista di problemi geo-politici-militari, ma ho voluto sollevare il tema perché mi sembra non svolto di proposito a livello mondiale.
Torno al tema centrale di queste mie considerazioni, per dichiarare che prima delle ferie estive ho voluto verificare con alcuni dei miei interlocutori più vicini che ne pensavano delle ragioni del NO secondo il punto di vista che ho in tutto questo tempo sostenuto.
Il testo che ho definito «In sintesi le tre ragioni del nostro NO» lo trascrivo qui di seguito, invitando, chi lo vorrà, a farmi conoscere la propria opinione.
In sintesi le tre ragioni del nostro “NO”
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- Il rispetto per la nostra carta costituzionale e per coloro che l’hanno redatta in un clima di riscatto del Paese.
- La cosiddetta riforma appare confusa e, quindi, oggettivamente peggiorativa anche sotto il profilo operativo.
- Il successo del “NO” come catarsi per il Paese, il quale, recuperando valori sopiti per non dire scomparsi, può tornare a crescere eticamente, culturalmente, economicamente.
* * *
Sviluppo
- La Costituzione italiana ha settanta anni e fino a ieri è stata osannata anche attraverso divulgazioni televisive, il cui interprete, però, riprende ora il tema proponendo aspetti di vetustà che debbono essere corretti. Non funziona così! L’ossequio al potere è proprio ciò che la nostra Carta costituzionale ha voluto contrastare, fondando i suoi principi nel più attento rispetto della democrazia.
Coloro che hanno redatto il testo si sono precipuamente attenuti a tale obiettivo, coniugando un’eccezionale competenza tecnico-giuridica con la più rigorosa analisi della deriva totalitaria dalla quale l’Italia era faticosamente uscita, onde impedirne il ripetersi.
Il clima nel quale hanno lavorato i Costituzionalisti era, dunque, quello descritto ed il loro immenso sforzo è culminato in un testo aperto, anche operativamente, ad un futuro nel quale la Repubblica Italiana si sarebbe sempre distinta come modello di democrazia.
- Gli attuali riformatori della Carta Costituzionale, premettono che i principi di cui al titolo primo sono sacri e, quindi, intoccabili, ma che un «restyling» è necessario per togliere le rughe del tempo su taluni aspetti più operativi.
Prevedono, perciò, di stralciare la doppia lettura delle leggi eliminando il Senato. Al riguardo, va ricordato che per i Costituenti il doppio esame di un progetto di legge era una ulteriore garanzia democratica, giacché, non casualmente, per Camera e Senato erano previste modalità elettive diverse.
Tuttavia, si può anche riflettere su di un Parlamento monocamerale, ma perché non si è semplicemente proposta l’abolizione del Senato, invece di inventarsi un “Senato delle Regioni” non elettivo, nel quale sarebbero travasati eletti negli enti locali. La domanda che sorge spontanea riguarda i compiti di tali senatori e soprattutto perché, se hanno da fare per il loro incarico negli Enti dove sono stati eletti, dovrebbero essere distratti dai loro compiti per fare i senatori comandati?!
La giustificazione basata sull’eliminazione di un costo della politica è risibile rispetto all’inutilità della nuova struttura senatoriale, che, come sostengono alcuni esperti, toglierebbe autonomia alle Regioni rispetto ai compiti assegnati a queste ultime.
In conclusione, non si capisce perché non si è presentato un progetto che abolisse il Senato e riducesse anche il numero dei deputati alla metà per conseguire quel risparmio dei costi della politica sbandierato dai riformatori.
Un altro pasticcio, già consumato, è la modalità secondo la quale sono state «abolite» le Province.
I costi sono rimasti gli stessi e la mancanza di un programma per la ripartizione dei compiti provinciali tra Regioni e Comuni ha creato vuoti operativi e gravi disfunzioni organizzative, come quelle afferenti la ricollocazione del personale delle Province.
Basta fermarsi a queste considerazioni per avere conferma che non si può pensare di riformare perché così si è efficienti, bisogna prima pensare ad un piano dal quale risulti l’efficienza delle riforme.
La risposta dei riformatori a dette riflessioni è che si rende più governabile il Paese, in quanto c’è una sola Camera la quale, possiamo aggiungere, ratifica i decreti governativi. Opzione facilitata, peraltro, dalla legge elettorale cosiddetta «Italicum», con la quale una minoranza di fatto può diventare maggioranza in Parlamento.
Non era certo questo l’intendimento dei Padri della Costituzione e non può esserlo per chi ai principi che gli stessi hanno voluto trasferire nella Carta costituzionale uniformano i loro sentimenti ed il loro agire.
- Non c’è alcun dubbio che il Paese stia da anni declinando verso un baratro, costituito da smarrimento del senso civico, incultura, degrado economico, situazioni che abbiamo storicamente sperimentato e dalle quali siamo usciti solo dopo traumi, come l’ultimo conflitto mondiale.
Quello che adesso si invoca è una «purificazione» non drammatica come quella ricordata, ma certamente la scossa deve essere forte e la rinascita fondata su solidi valori.
Può essere opposta a tale approccio l’eccezione della globalizzazione, che, però, non regge in quanto dimostra l’incapacità di gestire la stessa nell’interesse del Paese. È emblematica, al riguardo, la sequela dei Governi Monti, Letta, Renzi e, rispettivamente, l’originale plauso al primo quale salvatore per aver seguito una ferrea politica del rigore (niente investimenti, solo taglio della spesa), oggi aspramente criticata da tutti, compresi quelli che in passato tributavano applausi.
In altri termini, gli italiani dovrebbero avere contezza delle loro debolezze, per analizzarne le cause e trovare la forza per superarle.
Tutto ciò non appare fattibile se gli organi di Governo seguitano ad ammannire la popolazione con slogan inneggianti a successi inesistenti.
Da qui l’esigenza di un cambiamento radicale, una vera e propria catarsi che transiti, in questo momento storico, per le vie democratiche. L’occasione è il “NO” convinto alle modifiche costituzionali proposte per aprire, poi, a nuove elezioni dove, questo è l’auspicio, il “non partito di maggioranza” e, cioè quello che non ha votato o ha votato scheda bianca o nulla, torni a votare. La domanda è per chi, se il panorama politico rimane quello che ha indotto al non voto. È giusto, ma la risposta è che occorre immaginare un’iniziativa che sappia programmare in senso tecnico quanto occorre per recuperare il vuoto che sta inghiottendo il Paese.
Questo è il compito che occorre darsi per, poi, trovare tra i sessanta milioni di Italiani quelle 300 persone che per le loro doti siano disposte a lavorare per la nuova costituente ed al rilancio etico, culturale ed economico del Paese, per il quale occorrerà un lasso di tempo minimo di quindici anni.
Si può fare, come la storia patria ci dimostra sull’esempio del secondo dopoguerra, dove talune persone, non politici di professione, si sono dati da fare per imparare e, poi, svolgere con autorità il ruolo di statisti.
Claudio Bianchi