Seguito a scrivere queste considerazioni essenzialmente per riordinare le mie idee su argomenti che considero, a torto o ragione, di vitale importanza per il futuro sociale ed economico del Paese. In altri termini, scrivo per me stesso, osservando che i contatti per queste mie riflessioni sono scesi a 119, mentre quando tratto, ad esempio, il “Voluntary disclosure”, gli stessi salgono a 2782!
La domanda che mi faccio, al riguardo, è la seguente: posto che le mie capacità espositive dovrebbero non cambiare quando scrivo dell’uno o dell’altro argomento, ne deduco che per i cortesi visitatori del sito il tema Paese appare privo di appeal, rispetto alla “disclosure”.
Tale conclusione mi avvilisce non poco, perché dimostra che gli specifici argomenti professionali interessano più delle riflessioni su “dove sta andando l’Italia” e sui rischi che possano sussistere nel percorso intrapreso.
È anche possibile che quanto vado dicendo da quattro anni possa classificarmi come uno che sa solo criticare e, soprattutto, che è un disfattista.
La censura può avere fondamento nell’iperbolismo di taluni miei ragionamenti, ma, guarda caso, quasi tutte le mie remore su come si stava procedendo e su chi gestiva i procedimenti hanno trovato conferma.
Ho già ricordato, in proposito, la mia opposizione all’austerità ottusa, che quasi tutti i commentatori, più o meno paludati, applaudivano all’epoca, per mutare parere oggi e farsi paladini dello stimolo della domanda.
Ho sostenuto da keynesiano l’esigenza di una politica di “deficit spending” fondata su una ben articolata programmazione, di cui ho anche abbozzato un primitivo esempio, ebbene oggi si mendica uno spiraglio nel vincolo di bilancio per attuarne almeno un pezzettino di quella politica. Ho anche affermato che il vincolo di bilancio è stato una iattura, almeno nella formula con cui è stato imposto dall’Unione Europea; una più approfondita riflessione avrebbe, a mio sommesso giudizio, giovato, evitando le inevitabili deroghe che sono state e sono ancora richieste e spesso inevitabilmente concesse.
In tal senso, il caso italiano può considerarsi emblematico, giacché pur difendendo il vincolo non diminuisce ma anzi si accresce il debito pubblico. La difesa è funzione di manovrine governative più o meno occulte per tirare la coperta una volta dal lato delle entrate ed un’altra da quello delle spese, ma l’impatto positivo sul denominatore del rapporto Debito/PIL serve a recuperare l’effetto della crescita del numeratore dello stesso. In altri termini, il debito pubblico seguita a salire a causa del corrente, mentre un ragionevole programma di investimenti lo farebbe salire ma con una prospettiva di ripresa economica, in grado di ricondurlo in limiti fisiologici per effetto delle maggiori entrate che da tale manovra scaturirebbero.
Tagliare le spese sanitarie, ad esempio, è un vulnus per il welfare di fronte ad una popolazione che invecchia. La testimonianza di ciò viene dall’informazione statistica, che vede nell’ultimo anno il nostro Paese contenere le aspettative di vita.
La minore capacità di spendita di individui e famiglie ha contratto gli oneri per la salute. Aspetto aggravato dal superamento della gratuità di vaccini, altre medicine e prestazioni mediche. Inoltre, l’immigrazione ha introdotto culture non in linea con le prescrizioni sanitarie preventive.
L’assenza di una autentica programmazione in chiave economico-aziendale, e cioè con i numeri che quantifichino entrate ed uscite in funzione degli obiettivi programmati, sta generando un allargamento del divario tra il nord ed il sud della nostra penisola, con risvolti sociali negativi sotto gli occhi di chi li vuole vedere ed interpretare.
Non basta, al riguardo, la brillante battuta del nostro Premier che “non solo il Crotone ma tutto il Sud” deve arrivare in Serie A, perché il conseguimento di tale obiettivo è funzione della creazione di condizioni economiche per le quali ciò divenga possibile. Ma chi investe nel nostro meridione? Non i privati, perché qualche acquisizione di aree non significa investire per creare occupazione, ma solo depauperare ricchezza. Non si può essere randomici di fronte a problemi economici e sociali come quelli che investono il Paese, né immaginare che spingere all’ottimismo perché siamo italiani può essere la medicina per risolvere i problemi, qualcuno l’ha già propinata al popolo italico nel primo ventennio del secolo ventesimo, ma l’effetto è stato perverso.
Chi ci governa dice che lo strumento o il più importante strumento per far fare al Paese il salto di qualità necessario per tornare a “campare” bene sono le riforme.
Argomento di cui mi sono già occupato ma sul quale torno volentieri per ordinare, come ho detto al principio di questa nota, le mie idee e sollecitare riflessioni.
L’attuale punto di partenza ritengo che debba essere la priorità delle riforme nei programmi del Premier, il quale, nella prospettiva del referendum confermativo sul pacchetto costituzionale, ha aperto una vera e propria compagna elettorale, minacciando il «popolo» che se il risultato della consultazione fosse un successo del “no”, lui toglierebbe il disturbo.
Provo a considerare le motivazioni del Premier per le ricordate riforme. La prima, quella forte che, di fatto, assorbe tutte le altre, riguarda la possibilità di legiferare più rapidamente e, quindi, adottare tempestivamente i provvedimenti nell’interesse del «popolo». Sotto altra angolatura: la possibilità dell’Esecutivo di operare con vincoli parlamentari estremamente affievoliti. Quest’ultima considerazione va legata alla legge elettorale, il cosiddetto “italicum”, la quale prevede un forte premio di maggioranza per il «vincitore», il quale se fosse tale all’esito del ballottaggio godrebbe di detto premio nella misura del 55%.
Proviamo a fare un po’ di conti: se vota il 40% degli aventi diritto ed il vincitore conta il 51% dei voti, significa che costui con un consenso di poco più del 20% arriva alla maggioranza dell’80% circa dei deputati!
Siamo, così, molto vicini alla logica dell’«uomo solo al comando», se non vogliamo usare un’espressione più cruda. Ma, si può ragionevolmente obiettare che quanto ho descritto sarebbe colpa di quel «non partito di maggioranza relativa» al quale mi sono tante volte riferito.
È vero, ma le motivazioni di non voto, che io ho condiviso, possono trovare oggi, o meglio nel referendum di autunno, uno sbocco naturale nel votare “no” al predetto referendum proprio per cambiare, la cui voglia, repressa dall’impossibilità di scegliere oltre la «gabbia» precostruita, può essere espressa proprio dalla condizione offerta e ribadita dai Vertici di Comando: se “non passa il referendum sulle modifiche costituzionali vado a casa”.
Capisco che un tale agire cozza con il muro del «si» costruito dal Premier utilizzando i Comitati promotori, nonché l’appoggio incondizionato dell’ex Presidente della Repubblica che lo ha imposto, come ha fatto con i suoi due predecessori.
Comunque, qualche voce autorevole che esprime dubbi sulla riforma costituzionale relativa all’abolizione del Senato, per sostituirlo con quella «cosa» non ben definita, fatta da esponenti di Comuni e Regioni – i quali se hanno da fare per i loro impegni in tali Enti, non si capisce come potrebbero occuparsi di attività senatoria – si è levata. Infatti, su “Il Sole24ore” del 23 aprile a pag. 21 sono argomentate le obiezioni di un folto numero di eminenti giuristi sul provvedimento proposto, nonché sul quesito referenziale.
Al riguardo si apre un altro fronte, tra chi sostiene il referendum si/no e chi lo vorrebbe, come i giuristi sopra citati, articolato con specifiche possibilità di si/no.
Personalmente, ritengo che l’articolazione, ancorché concettualmente comprensibile, possa creare nell’attuazione confusione e, peggio, disaffezione, motivi che mi spingono a preferire il quesito secco, il cui risultato, se deve essere inteso come un giudizio globale su chi ci governa, diventa assoluto in un senso o nell’altro.
Al riguardo, il “non partito di maggioranza relativa” ha la possibilità di incidere e forse quella referendaria è l’unica opportunità che gli rimane. Naturalmente occorre interrogarsi se si condivide l’attuale Governo o meno. Alcuni, particolarmente scoraggiati, ritengono che l’attuale Premier sia deteriore, ma che il panorama dei concorrenti tra i politici attuali non presenti nulla di meglio. Io osservo, però, che gli italiani sono circa sessanta milioni e, quindi, è ragionevole pensare che almeno cento persone di qualità superiori a quella di chi ci governa o aspira a farlo si debbano trovare per forza.
Certamente occorre stanarle, convincerle a mettersi in gioco per il servizio alla collettività, ma bisogna anche aver fiducia nella possibilità che si trovi un aggregante attraverso la proposta di un programma realizzabile ed esposto in modo chiaro.
Se qualcuno, oltre a me, ci crede, “batta un colpo” e vedremo insieme come procedere.
Claudio Bianchi