Confesso che sono spinto dalla volontà di proseguire nelle mie considerazioni e, nel contempo, ho tante remore nel farlo.
Infatti, quanto osservo ripropone aspetti già affrontati, motivo per cui, dettagli a parte, non potrei che ripetermi, rispetto a ciò che ho esposto nelle precedenti riflessioni.
Eppure proprio l’aspetto della stagnazione delle idee merita una profonda riflessione, mirata alla ricerca del perché e del dopo che attende il Paese.
Mi assumo la responsabilità dell’espressione citata, stagnazione delle idee, e cerco di spiegare il motivo per il quale la stessa mi si è materializzata nella penna.
Il fulcro dell’esame può essere la legge di stabilità. Il Governo ha elaborato il testo, lo ha inviato alla Commissione U.E. nei termini temporali previsti, e lo sottopone al Parlamento nazionale per l’approvazione.
La logica del documento è la stabilità dei conti con un deficit del 3% rispetto al PIL. Non ripeto l’immagine della coperta corta, ma osservo che la critica al documento viene dalle Parti sociali che ne segnalano la mancanza di coraggio rispetto all’esigenza del colpo di reni per venire fuori dalla recessione.
L’Esecutivo, almeno il nucleo più prossimo al Presidente del Consiglio, replica che la legge in questione per la prima volta non aumenta le imposte e taglia la spesa.
Sul primo aspetto lo shock è grande, perché l’IVA è aumentata dell’1% dal 1° ottobre; l’IMU sulla prima casa esprime un balletto circa la sua reintroduzione per le abitazioni di lusso, peccato che, secondo la più recente interpretazione, la qualificazione riguarderebbe i mq con l’applicazione delle imposte quando questi sono più di 150.
Senza entrare nel merito delle due imposte, non si può non rilevare che gli effetti non saranno favorevoli alla ripresa della domanda ed, in particolare per l’IMU, si contrarrà quella connessa al cambio della prima abitazione con una di maggiori dimensioni, anche quando ciò è funzione dell’aumento del nucleo familiare.
La verità è che la legge di stabilità, il cui nome è tutto un programma nell’attuale fase di recessione, intende correlare l’aumento del gettito tributario agli interventi, come quello sul cuneo fiscale, richiesti dalle Parti sociali, in un quadro di saldi di conti immutati, nel rispetto del vincolo di bilancio.
D’altro canto i tagli fatti, minacciati, ritirati sono un rischio quando toccano la sanità ed in genere il sociale, comunque non c’è nulla di nuovo sul piano della politica economica, da qui il mio grido sulla stagnazione delle idee.
Prendo anche atto di quanto ha dichiarato un esponente del governo, di cui non ricordo né carica né nome, e cioè che la legge in questione non può prescindere dai limiti imposti dalla U.E..
Io, però, non voglio credere che dimostrando con un piano serio a medio termine che l’equilibrio di bilancio si recupera, ma, intanto, occorre rilanciare l’attività d’impresa per creare lavoro e prospettive di adeguate entrate tributarie.
Non ci si può basare per il rilancio sull’attuale struttura produttiva, questa, se agevolata con oneri a carico della collettività, potrà forse consentire un marginale recupero di occupazione, ma solo un programma di vasto respiro volto alle infrastrutture potrà creare sviluppo attraverso le opere dirette e l’indotto consequenziale.
Del resto proprio dalla Germania può venire l’insegnamento, giacché ha un debito pubblico maggiore del nostro ma con un’incidenza proporzionale ridotta sul PIL poiché questo, grazie al buon andamento della produzione, è elevato.
L’esempio del nostro più integerrimo fustigatore ci deve spingere a non cincischiare sulla stabilità contingente che reca alla consunzione del Paese, ma spingerci a dimostrare che un piano coraggioso di investimenti è la soluzione per uscire dal pantano recessivo.
È anche vietato, a mio parere, trascurare in tale contesto programmatico l’agricoltura alla quale si stanno cominciando ad avvicinare i giovani ma con iniziative troppo marginali per favorire un rilancio del settore.
Credo di dover esplicitare, a questo punto, un aspetto del mio convincimento che ho trascurato.
La programmazione alla quale mi richiamo continuamente è intesa con riferimento allo Stato, che, nel rispetto delle leggi che si è dato, deve coinvolgere Regioni ed Enti locali, superando, per il bene dei più, le eventuali opposizioni.
Al riguardo, lo dico da persona che quando sente parlare di modifica alla Carta Costituzionale avverte brividi di paura, sarebbe utile una revisione delle strutture amministrative periferiche. Ritengo che possa essere utile sopprimere le Provincie, passando con raziocinio le competenze delle stesse alle Regioni ed ai Comuni.
Questo non tanto per un contenimento dei costi della struttura amministrativa del Paese, quanto per un più snello rapporto tra il Governo centrale e la catena periferica, che sarebbe costituita solo da Regioni e Comuni.
Il tema è entrato, come si suol dire, nell’“agenda” di più «premier» ma li è rimasto, perché lo «svolgimento» è parlamentare e chi ne occupa gli scranni dovrebbe essere più coeso con i problemi autentici del Paese aderendo, fin da principio, a comparti politici coerenti con tale substrato.
L’obiezione è immediata: ogni parlamentare ha fatto una scelta in relazione al proprio ideale politico, ma lo è altrettanto la replica: seguiamo lo spietato linguaggio delle cifre e costruiamo un programma che mostri o smentisca la soggettiva convinzione rispetto a quell’ideale politico.
A questo punto mi sento appiccicare addosso la targhetta di tecnocrate, ma la stacco osservando che credo nel razionale welfare, essendo, però, convinto della possibilità di conseguire l’ideale solo attraverso un concreto piano di azione sviluppato negli anni a ciò necessari.
Ma chi crede in tale percorso?! Io oso ancora una volta pensare che, forse, quel “non partito di maggioranza relativa” se è disilluso dai politici della vecchia, come della nuova generazione, può apprezzare un ideale che sposi la concretezza operativa avendo un obiettivo e la metodologia per verificarne il conseguimento.
Claudio Bianchi